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mercoledì 10 novembre 2010

Teatro, un "dittico" di Scimone e Sframeli a Messina

Primo appuntamento del cartellone di prosa del Teatro Vittorio Emanuele di Messina ed esordio con una compagnia che fa onore alla città dello Stretto: quella di Spiro Scimone e Francesco Sframeli. Autore e attore il primo, regista e attore il secondo, più volte insigniti dei Premi Ubu (il riconoscimento teatrale italiano più prestigioso) presenteranno due loro lavori: "La festa" e "Pali", in scena dal 10 al 14 novembre. Testi in cui la denuncia sociale, la frantumazione delle frasi, lo stravolgimento delle parole si mischiano a una diffusa comicità.

"La festa" è un testo scritto con dialoghi brevissimi, fatti di battute di poche parole, spesso una sola. I tre personaggi procedono in un continuo rinfacciarsi episodi distorti e un passato forse inventato. Sono un padre, una madre e un figlio, rinchiusi nello spazio geometrico di un’astratta cucina, che dialogano per domande e risposte. Com’è il tempo? Vuoi il latte? Hai messo lo zucchero? È calda l’acqua? Come formule di un rito che si ripete uguale da un lungo tempo. La festa del titolo celebra un anniversario, i trent’anni di matrimonio della coppia. Ciascuno dei tre personaggi recita infatti la propria parte. La madre assillante che accentua il suo ruolo di vittima. Il padre che fa la voce grossa per mascherare la propria debolezza e dipendenza. Il figlio protervo è diventato lui il vero padrone di casa, anche perché è lui che mette i soldi, oscuramente guadagnati.

"Pali" è il lavoro più recente di Scimone e Sframeli, quasi una parabola. In fuga da una società sempre più emarginata, quattro personaggi - La Bruciata, Senzamani, Il Nero e L’Altro – raccontano il vuoto, il disagio, le continue ingiustizie dei nostro tempo. Urlano il malessere e lo scontento, raccontando i loro sogni infranti in un impasto linguistico di sorprendente maturità. Per salvarsi da un mondo saturo di egoismo, intolleranza e indifferenza, questi stiliti dell’oggi cercano rifugio sui Pali, per continuare a vedere ciò che tanti occhi fingono di non vedere più.



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